Con grandissime aspettative sono andata a vedere Carol, il film di Todd Hanyes tratto dal romanzo di Patricia Highsmith, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel lontano 1952. Purtroppo anche stavolta il film, rispetto al libro si è rivelato una delusione. Nonostante il talento indiscusso di Cate Blanchett (che adoro), la perfetta ricostruzione del periodo, l’estrema raffinatezza dei costumi, degli interni, la perfezione della colonna sonora, il coinvolgimento dello spettatore non decolla.
Anche se questa pellicola è candidata a ben 6 primi Oscar.
Fotogramma dopo fotogramma, ho sperato ardentemente che sullo schermo accadesse qualcosa che mi facesse palpitare, stare con il fiato sospeso, commuovere, ma non è successo nulla.
Calma piatta.
Sembrava di sfogliare una copia (vintage e un po’ trasgressiva) di Vogue.
Una stupenda Cate Blanchett (forse con un po’ troppo rossetto color passione) incontra in un grande magazzino newyorkese una giovane e graziosa commessa, dallo sguardo ampio e stupefatto, (Rooney Mara) e zac! E’ colpo di fulmine!
Peccato che nella pellicola manchi tutta lo spessore psicologico dei personaggi che, fortunatamente, si trova nelle pagine del romanzo della Highsmisth.
La giovane commessa Thérèse non è una ragazza ingenua e confusa ai limiti della vacuità, (con amici hipster, tutti uguali, che non vengono caratterizzati più di tanto) come appare sullo schermo. E la femme fatale Carol, labbra di fuoco e visone extralarge, non è quella predatrice pedofila che fa pensare: “Uh ssignur! Adesso se la mangia in un boccone!”
No, c’è altro. Molto altro, peccato che nel film non si capisca.
Perchè nel film è tutto affrettato: la commessa vende un trenino a Carol, poi le manda a casa i guanti che ha dimenticato sul bancone. Carol per ringraziarla la invita a pranzo e da lì è un autostrada verso la fiamma della passione.
On the road insieme, dormono in motel: sembrano madre e figlia e fa un po’ senso. Poi Carol vorrebbe divorziare, senza perdere l’affidamento della figlia, ma la sua preoccupazione/disperazione si stempera nell’incremento esponenziale dei Martini Dry che si scola, mentre la povera e sedotta Thérèse spalanca sempre di più gli occhi.
Però poi non le va neanche così male: da commessa di giocattoli, diventa photo-editor al New York Times (gli amici hipster sono serviti a qualcosa!)
Il romanzo fortunatamente è tutta un’altra cosa: intenso, appassionato, profondo e soprattutto provocatorio. La Highsmisth confessò di averlo scritto in seguito a un episodio biografico: anche lei, a inizio carriera, aveva fatto, nel periodo natalizio, la commessa in un grande store newyorkese nel settore giocattoli. E aveva incontrato una bellissima, misteriosa e affascinante signora bionda. Ne era rimasta così colpita da scriverne subito, la sera stessa appena tornata a casa dal lavoro.
Da lì è nato il romanzo, una storia di amore gay, che fece scandalo.
Infatti nel 1950 il primo editore dell’autrice rifiutò il manoscritto. Ma Patricia Highsmith non si perse d’animo, cambiò editore e due anni dopo riuscì a farlo pubblicare, firmandosi però con uno pseudonimo.
Una vigliaccheria giustificata se inquadrata nei tempi del perbenismo anni’50.
Il titolo del romanzo era più neutrale: The Price of Salt, e solo l’anno successivo, quando fu stampato nell’edizione economica, a dispetto dei benpensanti, divenne un best-seller. E l’autrice in un’intervista dichiarò di aver ricevuto per anni le missive dei lettori che la ringraziavano per aver raccontato, con coraggio, la storia di un amore potente e “diverso” dai canoni tradizionali.
Bellissima recensione del libro! Lo leggerò sicuramente per il film … ma i rossetti troppo appassionati mi piacciono poco
Il film è curatissimo, le attrici brave ma è troppo patinatol
D’accordissimo sul film: grandi aspettative tradite da un prodotto formalmente perfetto ma algido nelle dinamiche del transfert, probabi,lmente a causa di un grave errrore di sceneggiatura che non riesce a innescare alcun tipo di identificazione spettatore-personaggio. Ben diverso dalle precedenti opere dello stesso regista, l’ottimo LONTANO DAL PARADISO (*) (che hanno ritrasmesso proprio ieri sera per televisione) e il caleidoscopico VELVET GOLDMINE.
Libro, questo è certo, sempre ottimo, anche dopo mezzo secolo (l’ho riletto proprio due settimane fa).
*Copio e incollo dal Morandini:
LONTANO DAL PARADISO
Far from Heaven
USA, 2002
GENERE: Dramm.
DURATA: 107′
VISIONE CONSIGLIATA:
REGIA: Todd Haynes
ATTORI: Julianne Moore, Dennis Quaid, Dennis Haysbert, Patricia Clarkson, Viola Davis, James Rebhorn
Hartford (Connecticut), 1957. I coniugi Frank e Cathy Whitaker hanno tutto per sembrare felici: agiatezza, eleganza, bellezza, salute, due bei bambini ben educati, la stima dei concittadini. Frank, però, è un omosessuale non più represso anche se furtivo; Cathy, madre esemplare e moglie trascurata, è attratta dal giardiniere vedovo, colto, civile ma coloured. Il perbenismo della moralità corrente non la perdona. È un melodramma declinato al femminile e un omaggio esplicito ai women’s films che negli anni ’50 Douglas Sirk dirigeva per l’Universal, facendo lo slalom tra i tabù dell’autocensura hollywoodiana. È un omaggio quasi fisiologico in cui forma e contenuto, convenzioni stilistiche e impatto emotivo sono inseparabili come in Sirk. Con una differenza: Haynes, sceneggiatore/regista, è in grado di dire apertamente quel che Sirk doveva sottintendere o alludere. Ci è riuscito con raffinatezza pudica, riunendo una squadra di competenti collaboratori: il direttore della fotografia Ed Lachman, lo scenografo Mark Friedberg e soprattutto la costumista Sandy Powell (Oscar per Shakespeare in Love) con cui aveva già lavorato in Velvet Goldmine, oltre ai tre infallibili interpreti principali. Franca D’Amato dà la voce alla Moore.
La recensione del film è tratta da:
il Morandini 2016
a cura di Laura Morandini, Luisa Morandini, Morando Morandini
Zanichelli editore
Grazie di essere passato di qui! 🙂 E del tuo commento!
Che onore! E’ vero che “già allora” eri esperto di cinema!