Quando nel luglio scorso questo romanzo ha vinto il premio Strega ci sono state moltissime polemiche. Oltre alle solite legate alla lottizzazione della gara, anche quelle che riguardavano la qualità del libro e in particolare lo stile di scrittura di Nicola Lagioia.
Un sacco di critiche riguardavano l’ampollosità del suo stile, il compiacimento nelle metafore, le reiterazioni che appesantivano il ritmo narrativo del libro.
Quando ho cominciato il romanzo ho pensato di condividere queste opinioni, leggendo, ad esempio, questa frase: Ma una parte di quella parte lo avrebbe invece portato a inginocchiarsi ai loro piedi… sono rimasta perplessa, ma poi la storia mi ha catturato e ho continuato a leggere abituandomi al modo di scrivere di Lagioia. Alla sua puntigliosità, spesso eccessiva, nel descrivere i dettagli che però poi diventa funzionale alla narrazione. Le impone spessore e drammaticità.
L’unico aspetto che è oggettivamente pesante riguarda le continue escursioni temporali che, per dare una panoramica più completa e profonda deglia vvenimenti, rimandano chi legge avanti e indietro nel tempo un po’ troppo spesso.
La storia inizia come un giallo con una ragazza nuda e ferita che cammina, come una zombie, in piena notte, in una strada statale alla periferia di Bari. Morirà in circostanze misteriose e il romanzo, a ritroso, narra la storia della sua vita e quella della sua famiglia. La famiglia Salvemini, quella di un uomo potentissimo, un costruttore con le mani in pasta in molti affari, in combutta con tutti i notabili cittadini. Una famiglia dall’apparenza borghese che nasconde dietro l’agiatezza e l’ipocrisia molti segreti e, appunto, molta ferocia. E’ una storia cruda di malaffare all’italiana, con un intreccio che coinvolge e fa riflettere. La parte più interessante del romanzo sono i ritratti psicologici dei protagonisti. Purtroppo realistici e molto più angoscianti delle loro azioni criminose. Lettura ideale per gli animi cinici.