Sono a metà del guado: ho già vissuto una bella fetta della mia carriera di mamma. Le mie bambine vanno alle elementari e sono piuttosto autonome. Vale a dire: nei pomeriggi che torniamo a casa da scuola, posso anche mettermi un po’ a lavorare al computer e loro vengono solo 5-6 volte in un’ora a chiedermi un foglio, una matita, farmi vedere un disegno, dirmi ho fame, ho sete, lei mi ha dato un pugno… Nonostante tutti gli anni di “mammmitudine” sulle spalle, quando leggo di neonati prematuri, faccio un salto indietro nel tempo e mi commuovo fino alle lacrime. A dire il vero piango anche in tutti i film dove mostrano una nascita, un parto. Mi si sono inumiditi gli occhi anche nel film “Molto incinta”, che era demenziale, divertente non certo toccante. Ora si sta discutendo tra i neonatologi l’opportunità di stipulare un documento nazionale che stabilisca a 23 settimane di gestazione la possibilità di rianimare, intubare e curare un neonato prematuro. Perchè per i piccoli nati prima di questa data sono troppe le difficoltà da superare per aspirare ad avere poi un’infanzia e una vita normale. Curarli rasenterebbe l’accanimento terapeutico. In Olanda esiste una una normativa che prevede “lo spartiacque” per la soppravvivenza a 25 settimane. I neonati nati prima di questa data non si rianimano. E’ una scelta drammatica, delicata e difficilissima. Quand’ero incinta di Anita la mia primogenita, ho rischiato anch’io di farla nascere troppo presto, alla ventinovesima settimana, alla fine del sesto mese. Sono stata una notte in sala travaglio con la flebo della vasosuprina per fermare le contrazioni e scongiurare la nascita. E’ andata bene. Dopo ho passato un mese immobile nel reparto di ostetricia contando i giorni che mancavano alla fatidica trentaquattresima settimana, quando finalmente i polmoni del feto funzionano. Anita è nata alla trentaseiesima settimana, pesava 3 chili e non ci sono
stati problemi. Ma quando vedo quei microbebé i ricordi si fanno fin troppo vividi.